giovedì 4 luglio 2013

Gentile Presidente del Consiglio e noi che fine facciamo?


Gentile Presidente del Consiglio è da quando ha parlato di politiche del lavoro che mi chiedo: e noi, che di anni ne abbiamo 34, che fine facciamo?
Perché quando si parla di lavoro si parla sempre di giovani, quelli compresi tra i 18 e i 30 anni.
E lo capisco e lo condivido, ma noi?
Quelli compresi tra i 30 e 40 anni, quelli che il lavoro non ce l'hanno mai avuto, oppure è precario o peggio lo stanno perdendo, sono in cassa integrazione o sanno che non verranno riconfermati.
La nostra è  una generazione che tutti fanno finta di non vedere: la politica, i sindacati, i giornali, perfino le statistiche.
Noi  che ci siamo diplomati e il lavoro non c'era già, ma tutti ci dicevano che se avessimo studiato, se ci fossimo presi una laurea, beh un'occupazione in qualche modo l'avremmo trovata.
Eccoci, siamo noi quelli che si sono iscritti in massa all'università pensando servisse ancora a qualcosa, noi che abbiamo affollato le aule, pagato le tasse, subito un paio di riforme e scoperto in corsa che quel titolo era poco più che carta straccia.
Noi che, ancora ottimisti ed illusi, abbiamo inaugurato la grande stagione della formazione post-laurea.
Perché a un certo punto ci hanno detto la fatidica frase: "senza un master non vai da nessuna parte".
E ci abbiamo creduto trasformandoci prima nel grande esercito dei masterizzandi e poi in quello degli stagisti.
Eh si, questa parola per lungo tempo sconosciuta è entrata nel vocabolario di un intero paese proprio quando la nostra generazione di sfortunati ha invaso aziende, cooperative, uffici pubblici e tanti altri posti molto più strani di questi.
Forse ai primi è andata meglio, il sistema con loro ha funzionato, si sono specializzati, sono entrati in una azienda che aveva bisogno di loro, che li ha formati e li ha tenuti.
Ma questo sistema meraviglioso è durato poco, giusto il tempo necessario al moltiplicarsi dei corsi, al trasformare quella bella idea "organizzo un master e formo il personale che mi serve" nel grande business della formazione.

Un vero e proprio contenitore, sostenuto da borse di studio e contributi pubblici di ogni tipo, attraverso il quale lo Stato ha creato occupazione (enti di formazione, docenti, totur etc) e al contempo parcheggiato un intera generazione che non sapeva dove mettere, a cui non sapeva che cosa far fare e per la quale era chiaro non ci fosse lavoro.
E così gli stagisti sono diventati un interminabile flusso di personale gratuito, formato e volenteroso da sfruttare per i più disparati motivi: progetti a termine, mansioni ripetitive e noiose, pacchi di fotocopie e molto altro ancora. Nessuna azienda ha rifiutato, anche quando di uno stagista non se ne faceva nulla, anche quando nessuno aveva il tempo di formarlo, anche se si trattava di abbandonarlo davanti a un pc.
Non serviva, ma perché dire di no, "tanto non si paga".
Certo non è stato per tutti così, per alcuni è stato il modo per trovare lavoro, per iniziare, per imparare. Io per prima sono stata fortunata, ma non siamo molti e soprattutto la sofferenza non è mica finita qui.
Perché?
Perché è sempre la nostra generazione ad aver avuto l'onore di scoprire cosa significasse realmente la parola "precarietà", perché è con noi che sono nati i mitici "co co pro", "co co co", finte partite IVA e similari.
Siamo entrati nelle aziende, ma pochi di noi sono riusciti a strappare un classico, onesto, rispettoso contratto a tempo indeterminato.
E così malattia, maternità, ferie pagate, straordinari sono diventati "privilegi" di cui la maggior parte di noi non ha mai potuto godere, a tal punto da pensare quasi di non averne bisogno. 
Salvo poi ammalarsi, rimaner incinta, chiedere un mutuo o voler comprare un televisore a rate.
Contratti a progetto per i quali sono stati versati dei contributi., raccolti in quella che l'INPS chiama "gestione separata" e che neanche se lavorassimo 100 anni per 15 ore al giorno riuscirebbero a dare vita ad una misera pensione. 
Eppure quei contratti li abbiamo accettati, firmati e desiderati perché hanno rappresentato un modo per lavorare e per sopravvivere in questo momento di crisi economica.
Spesso abbiamo perfino timbrato un cartellino, rispettato un piano ferie, un orario di lavoro ben preciso, abbiamo avuto una scrivania solo nostra, ci hanno perfino riconosciuto dei buoni pasto.
Proprio come ai nostri colleghi assunti. E così noi ci abbiamo creduto, ci siamo rassegnati, abbiamo pensato che quel quarto d'ora in più a letto la mattina, quel briciolo infinitesimale di flessibilità (quando concessa) non fosse poi così male.
Questione delicata insomma questa della precarità, eppure non è stata trattata con altrettanto garbo dalla mitica Ministro Fornero che è entrata a gamba tesa con una riforma, nata forse con le migliori intenzioni, ma decisamente presuntuosa ed inutile.
Quindi un bel giorno il lavoratore precario, ormai rassegnato e felice di avere un lavoro, è stato convocato nell'ufficio del suo capo e ha scoperto che il suo contratto non era rinnovabile per legge, che il momento di crisi è topico, che il costo del lavoro è insostenibile per le aziende, che gli enti pubblici non possono assumere e che con la morte nel cuore sarebbero stati costretti a mandarlo a casa.
L'ennesima mazzata in un periodo in cui tanti di "noi" (parlo sempre di quelli tra i 30 e i 40), stanno iniziando a perdere quel lavoro che pensavano finalmente di avere trovato o che, pur assunti, non hanno certezza di nulla.
Insomma, troppo vecchi per le vostre riforme, troppo giovani per gli anni d'oro, troppo vecchi per il mercato del lavoro, evidentemente troppo giovani per fare i pensionati.
A questo si aggiunga, e non voglio aprire il capitolo perché ci vorrebbe un trattato, che più della metà di questo esercito di lavoratori-zombie sono donne, con tutte le ulteriori difficoltà del caso.
Ora mi chiedo gentile Presidente del Consiglio: per quanto ancora pensate di far finta di niente?
Lo sapete che è questa la generazione che fa pochi figli, che non compra più le case, che ha ridotto i consumi?  Insieme con i suoi genitori che la mantengono con conseguente stallo dell'economia.
Lo sapete che prima o poi, quando i babbi e le mamme non ci saranno più e quindi neanche la loro pensione, di colpo migliaia di persone perderanno l'unica loro fonte effettiva di sostentamento?
Forse lo sapete, ma non sapete che fare.
Ma sappiate che siamo sì un esercito di invisibili, incapaci (e per questo un po' colpevoli) di far sentire la nostra voce, ma che non sarà evitandoci che risolvete il problema perché noi, rassegnatevi, in un modo o nell'altro saremo sempre una spina nel fianco di questo povero paese.

Nessun commento:

Posta un commento